Miami Beach. Gennaio, fa caldo, i locali lungo la spiaggia sono affollati e tutti bevono dallo stesso tipo di bicchiere…un tumbler enorme, praticamente una brocca. È stata la prima volta che ho visto con i miei occhi cosa intendevano le persone quando mi dicevano che negli Stati Uniti le porzioni sono gigantesche. Ma è stato l’estate seguente a New York che ho collezionato una serie di avventure culinarie che hanno veramente dato un senso al concetto di pantagruelico. Ma raccontiamo questa storia dal principio.
Arriviamo ad Harlem dove abbiamo affittato una stanza in casa di due ragazzi. Seduto davanti al portone sta un vecchietto. “Ehi man!” Dice e poi ci dà il codice del portone. Se vuole fare da antifurto non gli riesce benissimo. Farà così per tutti i giorni successivi. L’ingresso del palazzo ampio e spoglio, non è molto rassicurante, ha l’aria trasandata e vagamente sinistra, la prima immagine che mi disegna davanti è una chiazza di sangue su una parete di maiolica bianca, con tutto il corredo di schizzi e rivoli alla CSI. Troppi polizieschi americani, mi dico, ma non aiuta che a destra del portone sia stata accesa qualche decina di lumini da cimitero.
Il pianerottolo del nostro appartamento è lungo e stretto. Ci sono diverse porte alcune nuovissime altre talmente vecchie e malconce che sembrano dire: “fidati: meglio fuori che dentro”.
Tiro mentalmente un sospiro di sollievo quando arriviamo alla nostra porta. Si vede che è nuova. Ci accolgono i nostri padroni di casa Craig e Jay, sono affabili e l’appartamento è uno spettacolo, nuovissimo, in stile industriale, parquet scuro e mattoni a vista sulla parete di sinistra. Il viaggio è stato lungo, siamo stanchi e vogliamo riposare. Ci aspettiamo grandi scoperte da domani, ignoriamo che anche il cibo ci riservi delle sorprese.
Round 1. Noi e il supermercato. La mattina dopo di buon ora andiamo al supermercato ed è lì che per la prima volta ci confrontiamo con il gigantismo delle porzioni USA. Le bottiglie di Coca Cola sembrano delle damigiane, quelle del latte delle taniche. Arrivati davanti al bancone dei latticini ci troviamo davanti a panetti di burro grossi come mattoni. Usciamo dal supermercato con un interrogativo a cui non siamo riusciti ad avere risposta: come fa una persona che vive sola o anche una semplice coppia a finire quelle dosi da elefante prima che il latte scada o la Coca Cola sgasi?
Round 2. Noi e la pizza di Domino. I nostri padroni di casa ci invitano a cenare con loro. Ordiniamo due pizze, due andranno bene ma poi non riusciamo a finire neanche quelle tanto sono cariche e spesse. Ne lasciamo mezza che, ci assicurano i nostri ospiti, sarà ottima l’indomani per colazione. “Cavolo! Allora lo fanno davvero!” Penso, memore di una puntata di Sex and the City.
Round 3. Noi e la pasticceria USA. Una sera i nostri padroni di casa rientrano con un cabaret di pasticceria. Sono andati apposta nel Queens per comprarci quello che loro dichiarano essere un dolce top. Scartiamo il pacchetto seduti attorno al tavolo e dentro il cabaret troviamo un dolce molto simile a un pasticcino millefoglie della dimensione di una torta. “Ce n’è uno a testa.” Precisa Jay. Mi trattengo dal dire che era esattamente quello che temevo. E poi pronuncia la frase più rappresentativa della filosofia del cibo americano che io abbia mai sentito “bigger is better”, più grande è meglio è.
Ultimo round. Noi e gli hot dog. L’ultimo contatto con questa filosofia del cibo l’abbiamo avuta poco prima di rientrare in Italia a Coney Island dove ci siamo imbattuti nel cartellone che annunciava il conto alla rovescia per la successiva edizione del Nathan’s Hot Dog Eating Contest. Ogni 4 luglio, giorno dell’indipendenza statunitense lì uomini e donne si sfidano a chi mangia più hot dog 10 in minuti. Quanti ne avevano mangiati vincitori dell’anno precedente?
La donna 45, l’uomo 69 In dieci minuti.
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